

Nel maggio 2016, a dire il vero, è iniziato l’iter per l’elaborazione del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (Pnacc) che avrebbe dovuto prendere ispirazione dalla Strategia Nazionale Adattamento al Clima (Snac) (già varata nel giugno 2015).
Fino al 28 febbraio 2017, poi, i principali portatori di interesse erano chiamati, attraverso lo strumento della consultazione pubblica, a fornire indicazioni utili in merito alle vulnerabilità su scala territoriale e a fissare le priorità di intervento.

Dopo la revisione, intervenuta nel 2017, però, tutto si è fermato. Non si è mai più saputo nulla della nuova ‘versione’ del Piano, e, naturalmente, non è mai stato formalmente approvato.
I due maggiori nodi sono dunque venuti al pettine. Manca una chiara indicazione della copertura economica (quali le risorse necessarie e dove reperirle) nonché il fondamentale coordinamento istituzionale tra apparati statali e tra lo Stato e gli enti locali.

Nel frattempo, visti anche gli impatti sempre più devastanti dei fenomeni meteo-climatici estremi, gli enti locali sono andati avanti da soli.
Alcune regioni, tra cui Emilia Romagna e Abruzzo, hanno varato propri piani di adattamento, addirittura singole città lo hanno fatto. Inoltre, l’Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni Miglioramenti Fondiari (ANBI), ha lanciato, nell’estate del 2020, un Piano Nazionale per la Manutenzione Straordinaria e l’Infrastrutturazione di Opere per la Difesa Idrogeologica e la Raccolta delle Acque che prevede quasi 4000 interventi da farsi su tutto il territorio nazionale benché il 50% di essi riguardi regioni del nord: Piemonte Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria ed Emilia Romagna.